“Sìmon Cardoso era morto da trent’anni quando Emilia Dupuy, sua moglie, lo incontrò all’ora di pranzo nella saletta riservata di Trudy Tuesday.”
Questo è uno di quegli incipit fulminanti, che ti travolgono, che ti afferrano per un braccio e ti inchiodano davanti alla storia. Io ho dovuto fermarmi un attimo e trarre un respiro.
La mia memoria è corsa subito a certi inizi schietti e senza preamboli, dal tono giornalistico che rifiuta di tergiversare tipici di Gabriel Garcia Marquez. Solo più tardi ho realizzato che “questo” Martìnez è proprio “quel” Martìnez di cui Gabo parlava con affetto e ammirazione, riferendosi a lui non solo come amico, ma anche come collega, dal momento che insieme fondarono il periodico “Prensa latina”.
(Galeotto fu Gabriel Garcia Marquez, potrei dire.)
Comincia così il romanzo “Purgatorio”.
Siamo nell’Argentina degli anni Settanta: il Paese è governato con pungo di ferro dal generale Videla e dalla giunta militare. Ma Videla non verrà mai nominato, per noi sarà sempre “l’Anguilla”, e così ce lo immagineremo fino alle ultime righe. La città sta rivoluzionando i propri spazi per costruire le strutture che ospiteranno i Mondiali di calcio del 1978, il nazionalismo è alle stelle, la soppressione anche, e Emilia Dupuy e Sìmon Cardoso si innamorano.
Emilia è la figlia di uno degli uomini più vicini al dittatore, un economista responsabile di buona parte degli slogan politici del regime; Sìmon è un idealista, insofferente alle costrizioni imposte dal Governo. Entrambi cartografi per il Touring Club, vengono arrestati durante un viaggio di lavoro, che li ha portati ad allontanarsi dalla città per delle rilevazioni sul territorio nella zona di Tucumàn.
Emilia viene rilasciata, grazie all’intervento del padre; di Sìmon si perde ogni traccia. Chi afferma sia morto, giustiziato. Chi giura si stato rilasciato e abbia abbandonato il luogo di detenzione lasciandovi la moglie.
Diventa un desaparecidos. Entra a far parte di quell’umanità composta da circa trentamila persone che sono state fermate, arrestate, tenute in condizione di detenzione dal regime, senza che nessuno ne sapesse più nulla.
Sono pagine difficili. Non c’è nessun patetismo, perché l’autore non utilizza mai pretesti sentimentali, anzi: lo stile è piuttosto asciutto e il linguaggio vicino a quello giornalistico rende la vicenda assolutamente realistica, dunque doppiamente inquietante.
Emilia trascorre i successivi trent’anni alla disperata ricerca di Sìmon, viaggiando per il sud America, rincorrendo le voci che vogliono Sìmon in Colombia, in Cile, dall’altra parte del mondo. Non si rassegna, non cede: vede l’Argentina cambiare, il Governo cadere, la famiglia sgretolarsi, cadere per terra le maschere di chi ha finto, negli anni, che la nazione fosse una terra felice e prospera. E se è vero che il suo corpo porta i segni del tempo, il desiderio per Sìmon, per il suo corpo, è ancora vivo e prepotente. La tensione della ricerca è palpabile nella lettura: mi sono ritrovata più volte a pensare “Su, vi prego, ditele che Sìmon e morto, così si metterà l’anima in pace!”, pur di uscire da questo tunnel di angoscia.
Sìmon riappare, dunque. In un giorno come tanti, in un locale come tanti. E’ lo stesso Sìmon di sempre, senza rughe, con la valigetta di pelle che Emilia ben ricorda, con tanto amore e nessuna spiegazione. Ed Emilia, che per decenni ha lottato alla ricerca della verità, si affida a questa presenza con il cuore aperto e mette a tacere la parte di lei che vorrebbe chiedere: dove sei stato? Sei un desaparecido? Dove sono spariti gli argentini che non hanno fatto ritorno alle loro case? E mentre Emilia si accontenta della mano di Sìmon stretta fra le sue, il lettore è schiacciato sotto il peso delle domande.
Il romanzo è meraviglioso. Al di là della scrittura eccellente, possiede un equilibrio perfetto, un contenuto di qualità. Un peso storico. Mi ha fatta riflettere, indignare, arrabbiare. Mi ha intenerita.
E’ un oscillazione continua fra il presente e il passato, che si rivela poco a poco: il padre prepotente, la madre e moglie elegante e distratta che nasconde le origini ebraiche, la religione cattolica complice della dittatura, il perbenismo, i folli investimenti economici, la repressione del dissenso, la soppressione dell’individualità. Il dubbio che l’arresto di Sìmon non sia un caso, ma, piuttosto che l’arresto di Emilia fosse solo una scusa, regna sovrano sulla trama, anche alla luce dei piccoli segreti di famiglia che apprendiamo durante la lettura.
E’ un viaggio dentro Emilia e intorno ai personaggi, che di volta in volta vengono osservati da diverse angolazioni. E’ anche un viaggio in bilico fra il sogno e la realtà: la stessa Emilia perde il contatto con la realtà e sprofonda in una dimensione tutta sua.
Martinez è stato un maestro nel fondere quella che potrebbe essere la “storia tipo” di chi attende una persona scomparsa, con elementi e aneddoti assolutamente reali, come ad esempio la visita dei regnanti di Spagna (con annesso il furto della stola della regina), le telenovelas del dopo pranzo, gli avvistamenti di ufo inventati per spostare l’attenzione dai crimini della Giunta Militare.
Questo romanzo mi è piaciuto pazzamente… Impossibile restare indifferenti intorno al dolore di Emilia, portavoce della tragedia dei desaparecidos argentini. E la rabbia… la rabbia, la RABBIA devastante, mista al senso di impotenza, che ho percepito chiara, rumorosa e disturbante.
Come è possibile che trentamila persone spariscano mentre lavorano, passeggiano con il cane, siedono sulla panchina, che vengano torturati con la corrente elettrica, che le donne vengano derubate dei bambini che portano in grembo, che il governo ne sia responsabile e che abbia potuto trincerarsi dietro al silenzio?
Straordinario è, in questo senso, il ruolo affidato alla cartografia, altra grande protagonista della storia. Emilia e Sìmon sono entrambi cartografi. Entrambi vengono arrestati durante un viaggio di lavoro: devono dare il nome alle strade che si snodano nella foresta. Quando Emilia ritrova Sìmon, lei sta lavorando alla toponomastica cittadina, lui discute di programma cartografici.
Più sottilmente, tutto il romanzo è attraversato da quello che io penso sia un filo rosso, cioè la necessità di “fissare” cose e persone nel tempo e nello spazio, di rendere i luoghi riconoscibili, forse per porre rimedio (ammesso che sia possibile) alla paradossale situazione argentina dell’epoca: le persone scompaiono in quelli che sembrano dei buchi neri, dei non-luoghi sottratti alla legislazione, di cui non è possibile tenere traccia, di cui si nega la presenza perché non sono sulla carta, come la Escuela Superior de Mecanica de la Armada, che da scuola di formazione dell’aeronautica argentina divenne centro di detenzione, o la Mansion Serè.
Chi entra in un non- luogo non solo sparisce, ma cessa di addirittura di esistere, e viene messa in dubbio non solo la presenza, ma addirittura l’esistenza: a questo proposito andrebbe ricordato come Videla rispose al giornalista che chiese spiegazioni sugli scomparsi. Videla disse: “Prima bisognerebbe verificare se quello che secondo voi è esistito, si trovava proprio là dove dite. La realtà può essere ingannevole. Molta gente fa di tutto per farsi notare, e scompare solo per non essere dimenticata”. Come a dire che se una cosa sparisce, forse è perché non è mai stata lì.
Ritrovare è anche restituire un nome, riportare al luogo giusto. Riportare alla legalità, tracciare una via, rendere visibile quello che c’è. E’ scrivere su una carta un percorso di memoria, una cartina dei sentimenti e degli affetti.
L’uso della parola stessa, “desaparecidos”, viene ostacolato dal Governo, che vorrebbe abolirla, farne un vocabolo proibito, sfatare il mito dipingendolo come una mossa dei rivoluzionari, nella realtà come nel romanzo.
( e penso ad Hermione Granger, la saggia maghetta, amica di Harry Potter, che a proposito di storia più frivola- il rifiuto della comunità dei maghi di chiamare Voldemort con il suo vero nome- disse che il timore di pronunciare il nome di una cosa non fa che incrementare la paura della cosa stessa. Appunto.)
Spariscono interi quartieri malfamati (Operacion El Barrido) per lasciare spazio alle strutture sportive che ospiteranno i Mondiali, orgoglio nel Paese, altro ufo per distogliere l’attenzione. Ho dato un’occhiata a ciò che si racconta a proposito di quei mondiali: le squadre parteciparono con qualche titubanza (ma con la benedizione papale) e nessun giocatore si astenne, se non per motivi personali. L’atmosfera venne descritta dai giornalisti come “tesa”, visto il clima e le notizie che giungevano a proposito dei crimini commessi dalla Giunta, ma non così tanto tesa da ostacolare lo svolgimento dei giochi. E mentre la Nazionale argentina procedeva a passi svelti verso la vittoria (perché vinse il Mondiale, fra mille dubbi e contestazioni. Vendita di punti in cambio di grano. Narcos a foraggiare la squadra avversaria. Volete mica che la Nazionale di un paese in piena dittatura perda un mondiale giocato in casa?) in tripudio di celebrazioni ed esplosioni di gioia, al resto del mondo veniva nascosto tutto ciò che succedeva oltre lo stadio. Stadio che, per amor dell’onestà ve lo scrivo, era situato a 400 metri dalla Escuela Superior de Mecanica de la Armada di cui sopra. Oscaldo Ardiles, centrocampista, raccontò poi che quando scoprì la vicinanza con la Escuela fu raggelato all’idea che i detenuti avessero sentito la folla esultare.
E come dargli torto.
Ma oltre lo stadio, oltre i giornalisti che raccontavano di avvistamenti alieni, oltre i poliziotti che manganellavano, oltre a Videla e alla sua giunta, seduti nei salotti alla moda con le belle mogli stupide al fianco, oltre al silenzio con il quale il regime rispondeva alle accuse dei suoi stessi cittadini… oltre a tutto ciò che di spregevole c’è stato, le mamme di Plaza de Mayo non mollavano e continuavano a passeggiare con i loro cartelli davanti a Casa Rosada, ogni giovedì, con in testa il foulard bianco e i cartelli ben saldi in mano. E c’era Emilia, che non ha mai mollato, che non ha mai dimenticato o finto di dimenticare, chiusa nel suo personale purgatorio. C’era Emilia, che imparerete ad amare, e che non si è mai arresa.
(fidatevi di Sur. Fidatevi di Tomas Eloy Martinez.)